sabato 17 ottobre 2009

In ritardo.. ma nn sono riuscita a postarlo nel GIORNO giusto!


E' impossibile non capitare ogni tanto qui..

Controllo spesso la posta, perché spero di poter aiutare con le mie parole alcune di voi, e alcuni di voi.

Voglio rendervi partecipi, con questa nota, del giorno più bello della mia vita.

Il 24 giugno. Questo che ho scritto, risale a quella data, ma non sono riuscita a pubblicarlo.. e poi avevo pensato di non postarlo neanche!

Invece, voglio rendervi partecipi - benché in ritardo - della felicità che ho vissuto e provato quel giorno.

UN ANNO DALLA MIA GUARIGIONE.

Ragazze/i, dai disturbi alimentari si può guarire!! :)

Io sto veramente bene, mangio come se non fosse mai successo nulla, mi mostro come se non fosse successo nulla.. sembro di nuovo quella che sono! SEMBRO, x' non sono più quella che ero prima di ammalarmi.. sono una NUOVA persona, molto più forte di prima!

Vi abbraccio tutte e tutti tra queste braccia forti per trasmettervi la mia positività e il mio augurio che possiate farcela anche voi!

Vi ripeto, che potete sempre contattarmi: selene_giusti@libero.it



Un anno.Che poi, mi sembra ancora ieri.Ieri, quando ci siamo conosciute, quando ci siamo incontrate, quando ci siamo piaciute, quando ci siamo mescolate.Io e te: una sola persona, un solo corpo. Una sola vittima.È già passato un anno! Un solo anno.

Ho provato a cancellarti dai miei pensieri e dai miei ricordi, ma temo che i segni che hai lasciato dentro di me si siano trasformate in marcate cicatrici, che a volte bruciano ancora.

Non so perché ci siamo conosciute, non so perché mi sei piaciuta così tanto.Non so neanche perché mi sono divertita, se alla fine era solo male quello che facevo a me.Però mi ricordo quando ti ho vista, lì nell’angolo: bella, di una bellezza unica e difficile da descrivere.Eri impalpabile, così vicina a me, ma così irraggiungibile; fatta quasi di aria, leggera, inafferrabile.E oggi, dopo un lungo o breve anno, festeggio la tua assenza.Rido, rido perché sto festeggiando la tua assenza, anche se non sei ancora sparita definitivamente dai miei pensieri.È da un anno che ogni giorno mi sveglio conoscendo il mio obiettivo.È da un anno che ogni giorno mi alzo e so che devo sconfiggerti.

È da un anno che ogni mattina la prima cosa che guardo è una piccola maschera dell’ossigeno che da un anno è appesa vicino al mio letto.Non ho mai più avuto il coraggio di mettermela sulle labbra.I ricordi di quel 24 giugno di un anno fa sono ancora indelebili sulle mie labbra, le mie gambe tremano ancora quando ricordo quel giorno, così confuso, così annebbiato.

Mi ricordo di essermi svegliata con accanto chi mi ama, con degli occhi pieni di lacrime che mi guardavano.

E mi ricordo anche di essermi alzata subito, domandandomi cosa fosse accaduto, chiedendomi per quale motivo mi ero sdraiata sul pavimento quando dovevo prepararti il caffé.

Mi sono chiesta per quale motivo la scatola di stuzzicadenti che avevo visto prima che la mia vista si oscurò, dal tavolo si erano spostati e sparpagliati su tutto il pavimento.

E poi, si, cercavo un vostro sorriso.Ma dalle vostre labbra uscivano parole per me incomprensibili: ambulanza, morte, svenimento, attacco epilettico, malattia.E allora ho capito che tu, l’amica mia, la bellissima ragazza inafferrabile, eri riuscita a buttarmi sul pavimento.

E così, è da un anno che io non ti vedo più come mia amica. Ed è inutile fingere che non ti pensi. Anzi, a distanza di un anno io sono qui ancora a scrivere di te, del male che mi hai fatto, della gioia che mi hai fatto provare, della vita che mi volevi portare via.

Ed è quindi da un anno, che ogni mattina, io mi sveglio e ringrazio le Fate, dato che sono l’unica cosa in cui credo oggi.Ed è così, che da un anno, io ogni mattina mi sveglio. Pensandoti.Ma mi basta poco, ormai, per poter trovare la forza di alzarmi e di combattere ancora oggi.E in tutta questa incertezza, mi accorgo che un anno è poco.Ma è stato un tempo intenso, e so che così dovrà essere ancora.

Eppure, perché sputare su quello che ho seminato? Io oggi festeggio. E ringrazio tutti voi, che a vostro modo, mi avete tutti dimostrato quanto stavo sbagliando.

Grazie a chi mi ha detto che ero stupida, grazie a chi mi ha detto che ero un’idiota.Grazie a chi mi ha fatto piangere, grazie a chi mi ha fatto incazzare.

Grazie a chi non ha detto niente, grazie a chi è stato in silenzio.

Grazie a chi mi è stato vicino, grazie a chi è rimasto.

Grazie a chi è stato ad ascoltare i miei insulti, grazie a chi mi ha perdonato.

Grazie a chi mi ha abbracciato mentre piangevo, grazie a chi mi ha lasciato piangere da sola.Grazie a chi m ha perdonato soprattutto. Purtroppo è pesante il peso che mi porto addosso per quello che vi ho fatto passare.

Grazie a chi mi ha capito, grazie a chi mi ha compreso, grazie a chi mi ha giustificato.

Grazie anche a chi ha trovato le palle per allontanarsi da me in quel momento.

Grazie a chi si è allontanato ma che c’è sempre stato.

Grazie a chi mi ha fatto piangere, grazie a chi mi ha asciugato le lacrime.

Grazie a chi non mi ha giudicato, grazie a chi mi ha giudicato.

Grazie a chi sa, grazie a chi ha saputo, grazie a chi non dimentica il mio passato.

Grazie a chi c’è stato, grazie a voi ce siete, e grazie a voi che ci siete ancora.

Grazia a chi oggi festeggia con me. <3

mercoledì 25 marzo 2009

Capitolo Ultimo (ora il mio inizio)


Cara amica mia, grande mia malattia.
Ho bisogno di scriverti, ho bisogno di parlarti, ho bisogno di toccarti.
Da oggi tu non puoi più farmi compagnia, ci dobbiamo allontanare.
Sei stata tu a cercarmi, e io ti ho accettata, ti accolta, ti ho coccolato, ti ho coltivato come poche persone possono fare.
Siamo diventate grandi amiche e da un momento all’altro sei diventata indispensabile per me.
In ogni momento della giornata ti pensavo, da appena aprivo gli occhi la mattina fino alle ore più tarde della notte.
Mi sei subito piaciuta: eri misteriosa, segreta, silenziosa.
Solo io riuscivo a sentirti, solo io riuscivo a farti parlare, solo io ti ho sempre ascoltato e ho sempre fatto tutto ciò che tu mi dicevi di fare.
In pochi parlano di te.
Ti stupisci di questo cara? Vuoi proprio saperlo il motivo?
Perché tu amica uccidi: rovini la vita delle persone, di tutte quelle che ci stanno vicine, e noi iniziamo a odiare perfino queste persone, perché loro non ti accettano.
Io non ho mai ascoltato la voce di queste persone che non ti vogliono bene, ma ho sempre esaudito ogni tuo desiderio.
Io penso di amarti ancora, amata mia malattia, ma c’è qualcosa dentro la mia testa che ora mi trattiene le mani alla tastiera.. ed è diverso premere questi grigi tasti piuttosto che le tue ossa, così pungenti in questo mio corpo.
Nel mio corpo ora c’è cibo, poco. Ma c’è.
Ed è questa la luce che alcune dicono di vedere dietro questo tunnel.
Mi dispiace, ma oggi io non ho ascoltato la tua voce, ma ho ascoltato quella parte di testa che mi dice di fregarmene di quello che dicono gli altri.
E ho mangiato.
Mi sento una botte ora, mi sento i crampi, mi fa male la pancia.
Mi stai punendo, lo so, perché non ti sto ascoltando, perché ti sto ferendo, perché in questo mio corpo non trovi più ascolto.
Mi hanno detto più persone che è sbagliato ascoltarti. E queste persone non si sono mai stancate di ripetermelo.
E io non li ho mai ascoltati.
Dimmi quante volte io ti ho ascoltato! Dimmi, quando nel cuore della notte mi svegliavi e mi trascinavi fino a quel frigorifero e mi facevi ingurgitare tutto quello che desideravi.
E dimmi perché dopo esserti saziata, io, con il mio corpo, dovevo entrare in quel bagno, con la testa chinata, premere il mio corpo fino a far risalire tutto quello che avevo mangiato.
Ti ho sempre accontenta.
Ma ora vedo uno spiraglio da questa malattia. E lo devo seguire.
Ho paura, ho paura di soffrire senza di te, ma già ora, mi accorgo che buona parte di me vuole abbandonarti, come del resto hai fatto tu con me, facendomi sentire sola, vuota.
Devo farlo. Mi dispiace, perché ti amo, e te lo dico con il cuore in mano.
Ma a volte conviene separarsi. Per te ho perso tutto il resto della mia vita, il mio sorriso, la mia risata, i miei pianti di gioia, le mie passioni, la mia voglia di fare e di vivere.
Non posso rinunciare a tutto quello che avevo per te.
Mi domandi perché uso il passato? Perché quella gioia ora in me non c’è più.
Ma scommetto che ritornerà prima o poi, dovessero passare anche anni!
Con te ho passato solo momenti tristi e bui: mi hai trascinato per terra, mi hai avvolto in questo tunnel, mi hai fatto calpestare dai sensi di colpa, dalla tristezza, dalla solitudine.
Mi hai fatto soffrire. Mi hai fatto piangere. Mi hai fatto del male.
Mi hai fatto morire. Mi hai delusa. Non sei stata così una grande amica. Mi hai fatto credere che mi sarei accettata prima o poi, ma io stando con te non mi sono mai accettata, perché tu mi dicevi che potevo esplorarti ancora più a fondo, toccarti ancora più giù, nella parte più viva di te.
E ti ho dato sei anni per dimostrarti al massimo, ma tu non ti bastavi mai. Perché tu non ti basti mai.
Cosa dici? Che anche io non mi basto?
No cara, io mi bastavo prima di conoscerti.
Devi dimenticarti di me, proprio come io sto cercando di dimenticarti.
Non odiarmi mentre stai leggendo queste mie parole, non farmi soffrire ancora, non farmi pentire della strada che sto iniziando proprio da oggi a percorrere.
Ma soprattutto, non tornare mai più da me.



"Piangerai, si piangerai. Perché non ti piacerai.

Prima devi guarire fisicamente, poi guarirai mentalmente.

Ci vorranno anni, anche io oggi non sono ancora riuscita ad accettarmi.
Ma il cibo è diventato il mio ultimo problema, ma sicuramente è ancora uno dei miei pensieri.

Non pensare che da un giorno all'altro, una mattina, ti sveglierai e tutto sarà cancellato.

Dovrai svegliarti ogni mattina, affrontare lo specchio, e cercare di sorridere.

Si contano sulle dita di una mano i giorni in cui ho sorriso guardandomi riflessa nello specchio.
Ma ricordo perfettamente il sorriso che vedevo riflesso. Era diverso dai soliti.

Non pensate che una mattina ci sveglieremo e ci piaceremo.

Bisognerà lottare, piangere ancora purtroppo.

Ma ricordatevi che se c'è una cosa per la quale vale la pena di lottare è proprio per la vita.

Aiutiamoci, parliamo di questo problema, non rimaniamo in camera da sole a piangere.

Non preoccupatevi, non agitatevi, non rimente in silenzio.

Parlatene con le persone che amate di questi problemi.

Ma soprattutto, guardatevi allo specchio e domandatevi "Chi sono diventata?".

Si guarisce solo se lo si vuole realmente.

Io sono stata "fortunata" perchè ho visto la morte in faccia, e dalla paura che ho preso, ho capito che non ne vale la pena.

Purtroppo non so come si possa guarire in altro modo.

Spero che un giorno qualcuno possa scoprirlo, perché non bisogna arrivare al punto di rischiare di morire per capire che bisogna risolvere un disturbo alimentare.

Io sono stata soltanto fortunata, e chissà, forse le Fate durante la loro festa (24 giugno) hanno scelto di salvarmi per diffondere aiuto e coraggio.

Non è una strada semplice, e non scoraggiatevi se una volta affrontato il cibo, vedrete che avete ancora una lunghissima strada da percorrere per risolvere i vostri problemi.

Lo ammetto, sono solo all'inizio del mio percorso, ma penso che tutte insieme potremo farcela.

Iniziamo con il rispondere ai blog PRO ANA, denunciamoli, facciamo in modo che questi siti non esistano più. Parlatene, parlatene e scrivete.

Rimanendo in silenzio non si ottiene nulla.

Non abbiate paura, non siete sole, non siete mai state sole.

Siamo in tantissime, e ce ne saranno ancora tante come noi che abbiamo e stiamo soffrendo.

Forse un giorno potrò scrivere che sono riuscita a guarire definitivamente: il pensiero della malattia c'è ancora, ma il mio corpo non porta i segni di questa tortura.

Il pensiero penso che sarà l'ultimo a morire, penso che cercherà ogni giorno, e soprattutto nei momenti di difficoltà, di subentrare e di cercare di rallentare il mio percorso.

Ma ragazze, ne vale veramente la pena di morire per essere perfette, che poi.. detto sinceramente.. anche se pensiamo 30 chili ci vediamo sempre grasse?

Dobbiamo rinunciare alla vita?

Coraggio, non piangere se oggi che hai mangiato per la prima volta ti senti brutta.

I primi giorni sono i più terribili, poi il cibo diventerà solo un piccolo pensiero.

Lotta, perchè ogni giorno dovremo lottare contro la voglia di ritornare troppo magre.

Lotta, perchè ci saranno veramente delle grandi difficoltà da superare.

Lotta, perchè più volte piangerai, perchè più volte deciderai di non mangiare o di vomitare ancora.

Lotta, perchè una sera, quando sarai triste, ti troverai senza accorgertene a consultare un sito pro ana.

Lotta: dovrai lottare perchè siamo deboli e fragili.

Ma dietro a questo sottile strato di fragilità, esiste una persona fortissima.

Abbiamo molto più di altri, perchè dovremo lottare ogni giorno contro quello che rimarrà per sempre, un brutto, un indelebile, ricordo."



io continuerò a lottare con voi.

insieme ce la faremo.

e vedrete, anche voi troverete la vostra fata che vi aiuterà nei momenti peggiori.

domenica 8 febbraio 2009

Volevo informarvi che non terrò più questo blog.
Il motivo è molto semplice.
Ho un desiderio, un sogno, che vorrei poter realizzare.
Ho scritto tutto quello che ho provato, ho scarabocchiato e stracciato pagine della mia vita che mi facevano soltanto soffrire, ma alla fine mi sono ritrovata lo stesso con delle cartacce stropicciate e un po' bruciacchiate dalle mie sigarette, in cui racconto di me stessa.
Adoro scrivere, e voglio riuscire a realizzare il mio sogno.
Amo scrivere, e quello che ho raccontato, lo voglio far conoscere.
Voglio far conoscere la sofferenza, voglio poter far capire cosa è realmente questa malattia.
Voglio combatterla, e aiutare gli altri a vincere.
Questo è il mio sogno.
Su un blog purtroppo non si riesce ancora a trasmettere questo messaggio.
Sono pochi quelli che sanno, che conoscono, che combattono contro questa malattia.
In pochi conoscono, e in tante/i si ritrovano in questo problema.
Spero vivamente di riuscire a realizzare il mio sogno.
E sappiate che se mai troverete una certa Selene G. pubblicare un libro sull'anoressia e sui disturbi alimentari, beh.. sappiate che sono io.
Sono positiva, penso positivo. Sono felice.
Vi ringrazio tutti, e tu che leggi, tu che soffri, sappi che si può superare questo problema.
Purtroppo, occorre veramente tanto coraggio, ma sono sicura che ce l'hai anche tu.

mercoledì 3 dicembre 2008

Un passo indietro: tre anni fa.


Firenze è troppo affollata.
Ci sono troppi turisti, troppe persone che camminano distrattamente per le grandi piazze, mangiando rapidamente un rinfrescante gelato, che per il troppo sole, si sta sciogliendo. Troppi corpi, a volte perfetti, che infastidiscono i miei occhi.
Sono tornata da Firenze, felice di ritornare nella mia piccola città.
Quattro lunghi giorni insieme ai miei compagni di classe, quattro giorni nei quali nessuno poteva guardare cosa introducevo, o cosa non introducevo nella mia bocca.
Ero sicura che nessuno avrebbe fatto domande, nessuno avrebbe voluto spiegazioni. Tutti, tranne che i miei professori.
Già. I miei professori si erano accorti di questo mio improvviso dimagrimento, e vedendomi scheletrica tra quei banchi arrugginiti, mi avevano chiesto se avevo dei problemi con il cibo.
Infastidita e seccata dalle continue e assidue domande, un giorno sorrisi e dissi che avevo trascorso una brutta estate, ossessionata dal corpo perfetto da dover mostrare al mare, avevo smesso di mangiare.
“Sto meglio ora, ho ripreso a mangiare!” e sorrisi, e anche la mia insegnante mi sorrise, e poi mi abbracciò.
Ero veramente infastidita dal comportamento dei miei professori: continuavano a guardarmi, dalla testa ai piedi, e riuscivano ad accorgersi del mio umore, capivano se ero in difficoltà ma la cosa che più odiavo era che dovevo subire ogni giorno un interrogatorio.
Quella professoressa che quella mattina mi abbracciò sapendo che stavo meglio, un giorno si permise di dirmi: “Stai meglio così ingrassata”.
In quel momento mi venne voglia di piangere. Era ottobre, avevo ripreso cinque o sei chili dall’estate, ma non mangiavo ancora con regolarità. Sapevo che dovevo dimagrire, ma se avevo molta fame mangiavo addirittura due yogurt.
Mi ricordo ancora che quel giorno di ottobre non toccai il pranzo e neanche la cena. Mi sentii ancora più brutta, ancora più grassa. Pochi giorni dopo, troppo affamata, mangiai ma i sensi di colpa mi vennero addosso. E vomitai.
Fu in questo modo che ripresi ben cinque chili, e arrivai a pesare cinquanta chili.
Per la mia statura questo peso era giusto. Cinquantacinque chili sarebbe stato il peso perfetto. Troppo. Non volevo essere cinquanta chili. Mai.
Con il peso che avevo ora nessuno mi considerava anoressica.
Mi consideravano anoressica solo i miei amici più stretti, i miei genitori. Solo loro. E io invece volevo essere anoressica davanti agli occhi di tutti.
Mi piaceva sentirmi dire che ero magra, che avevo delle gambe magrissime, che avevo la pancia piattissima, che avevo le ossa sporgenti ovunque: dalle magliette si intravedevano due ossicini sporgenti e dai jeans a vita bassa sporgevano due grosse ossa.
Iniziai a toccare il mio corpo sempre più frequentemente per poi arrivare a fotografarlo.
Mi mettevo di fronte allo specchio e mi spogliavo lentamente.
Levavo la maglietta e rimanevo con il reggiseno e i jeans.
Osservavo ogni singolo centimetro della mia pelle.
Il mio occhio si soffermava soprattutto sulla pancia. Nonostante i miei genitori e le mie amiche mi dicessero che era piatta e tendeva a rientrare, io non ci credevo. La trovavo sempre gonfia, e spesso c’era una linea marcata che divideva la pancia sopra l’ombelico.
Spesso quando si rimane a lungo seduti ci si rialza con quella fastidiosa linea sulla pancia. Stranamente quando io mi specchiavo questa c’era sempre. Non andava mai via.
Passavo poi ad analizzare le anche. Le massaggiavo, e come un cursore del mouse, cercavo di capire dove iniziavano, per capire se era il massimo della magrezza o se potevano sporgere ancora di più.
E la risposta era scontata: sicuramente si potevano averle ancora più sporgenti.
Mi mettevo di profilo e sollevavo le braccia per vedere le costole. Spesso mi tornava in mente un’immagine che avevo visto su internet: c’era una donna seduta, anoressica; di quella foto mi avevano colpito soprattutto le costole. Erano protese, si vedevano e si potevano perfino contare.
E io contavo le mie. Due. La settimana successiva erano diventate tre. A quella ragazza se ne potevano contare perfino cinque. Non ero anoressica. Non lo ero più.
Mi toglievo i pantaloni e le mie gambe mi sembravano sempre più gonfie e grosse. Controllavo i talloni e poi le caviglie, ma ormai quella caviglia sottile che ero riuscita ad ottenere era scomparsa.
Non era rimasto più nulla di quel corpo così magro, così perfetto che ero riuscita ad ottenere.
Mi sedevo davanti allo specchio e cercavo di stendere il più possibile verso il basso la schiena. Toccavo la colonna, quella colonna che un tempo tracciava una linea che divideva perfettamente la schiena.
Mi alzavo, mi allontanavo dallo specchio e pensavo al ragazzo che mi piaceva, e non provavo vergogna a mostrare il mio corpo, ma ero sicura che poteva scomparire quella lieve sporgenza, che erano i fianchi.
Una cosa che ho sempre rimpianto è stata quella di non avere foto dell’estate in cui sono stata anoressica. Non ho nessuna foto che valorizzi il mio corpo perfetto che avevo.
Ho un semplice video, mio e di una mia amica, che balliamo in camera mia. Mi ricordo ancora quella serata: ero andata nel primo pomeriggio dalla parrucchiera. Le avevo portato un’ immagine di una ragazza che avevo strappato da un vecchio giornale. Volevo avere i capelli come lei. Come al solito non mi era piaciuto il lavoro che mi aveva fatto la parrucchiera, così appena ritornai a casa presi phone e spazzola e mi acconciai in un altro modo, e poi raggiunsi le mie amiche al parco, dove, quello stesso pomeriggio, si esibiva il gruppo del ragazzo che mi voleva magra.
Ho delle foto di quel pomeriggio. Era un pomeriggio dei primi di settembre, faceva caldo. Indossavo dei jeans, una maglietta senza maniche. Siamo seduti su una piccola collinetta del parco e sorrido. Ho i pantaloni arrotolati, e si intravede una parte del polpaccio. Magro.
Decisi allora di fotografarmi una volta alla settimana, la domenica sera precisamente, dopo essermi fatta la doccia.
In questo modo potevo confrontare il mio corpo: potevo vedere se l’osso era scomparso, oppure, potevo felicemente notare che ne era spuntato uno nuovo.
Firenze è una bella città, ne sono sicura. Potevo analizzare meglio il paesaggio, ma ero troppo attratta dai corpi, dalle curve delle statue.
Mi ricordo che in un museo mi ero soffermata ad osservare una statua orrenda: era una donna, che aveva dei fianchi tremendi, enormi.
Aveva la faccia magra, i capelli raccolti, la pancia piatta con un leggero rigonfiamento centrale. Esplodeva poi con delle gambe grosse.
Sono dovute venirmi a chiamare due mie compagne, perché nel frattempo, la guida aveva già terminato di descrivere tutte le opere che erano esposte.
A Firenze si trova piazza della Signoria, una fantastica piazza dove ci sono numerose statue. Perfette.
Siamo giunti a destinazione giusto per il pranzo. Ho sempre sofferto mal d’auto, e quindi con questa scusa, dissi ai miei compagni che avrei mangiato a merenda. Già sapevo che durante il pomeriggio dovevamo andare a fare una visita, e sapevo che non avremmo avuto tempo per fermarci a fare merenda.
Arrivò velocemente l’ora di cena. Ristorante convenzionato.
Temevo che fosse un ristorante con una sola grande tavolata.
Se fosse stato così avrei avuto difficoltà.
I miei professori erano a conoscenza dei miei disturbi alimentari, ed ero convinta che mi avrebbero guardato mangiare.
Prima di entrare nel ristorante mi venne quasi da piangere: avevo paura di quello che mi sarei trovata davanti.
Inizia già davanti all’ingresso a dire che avevo mal di testa, ancora un po’ di nausea.
Un grande sorriso appena vidi che la sala aveva piccoli tavolini sparpagliati.
Mi sedetti subito nel tavolo più piccolo, più isolato.
Da una parte avevo voglia di stare con i miei compagni, ma dall’altra, quella che ascoltavo di più, mi diceva che non dovevo mangiare.
Arrivò il primo piatto. Mi misi nel piatto un cucchiaio di pasta. Feci finta di mangiarla e poi, togliendo la forchetta dalla bocca, feci una faccia di disgusto e iniziai a lamentarmi. Scoprii inoltre che la pasta non piaceva a nessuno, era troppo piccante. Dissi allora che non l’avrei mangiata.
Arriva il secondo piatto: carne e patatine.
“Sono vegetariana” dissi. Mangiai giusto due patatine fritte, e poi uscii di fretta sul balcone a fumare, nella speranza che il freddo accelerasse la digestione di queste due maledette patatine.
Quando ritornai nella sala mi accolse a braccia aperte una mia professoressa e dovetti subire un lungo interrogatorio.
Hai mangiato? Cosa hai mangiato? Se dici di aver mangiato tanto vorrà dire che avrai mangiato una penna di pasta, o una patatina.
La odio questa professoressa: lei pesa quarantaquattro chili, è più bassa di me, ha due gambe da merlo, magre e snelle. Ma è brutta. E antipatica. Ficcanaso.
Avevamo camminato tutti il giorno, e per la sera era prevista un ulteriore camminata sul Ponte Vecchio.
Avevo la nausea, mi girava la testa e quando mi alzavo vedevo tutto nero, come se dovessi svenire da un momento all’altro.
Assaggiai una puntina di sorbetto che ci avevano portato al tavolo, e dopodichè presi le pastiglie che mi ero comprata: lassativi. Pastiglie al finocchio e al carbone vegetale per favorire il metabolismo e l’eliminazione dei gas..
Ne presi sei in quella sera.
E per togliere ogni sospetto dissi alle mie compagne che dovevo prendere le pastiglie per il mal di testa. Mi credettero.
La mattina la sveglia suonava puntualmente alle sette. Il primo mio pensiero era quello di truccarmi, di farmi bella e poi andare a fare colazione. Amavo la colazione, perché con la scusa di non poter andare in qualche bar a fare la merenda di metà mattina, avvolgevo in fazzoletti molte fette di torta che ci veniva preparata la mattina, biscotti di ogni genere, tra i quali anche i miei preferiti, fette biscottate e marmellate di ogni tipo.
Li nascondevo nella borsa, e appena ritornavo in camera per lavarmi i denti addentavo qualche fetta e una manciata di biscotti. Mi inginocchiavo davanti alla tazza del water e sputavo quello che avevo in bocca. Avevo finalmente fatto colazione.
La prima mattina trascorsa in hotel ebbi molta paura: dopo aver sputato l’acqua scendeva faticosamente, e alcuni pezzi di cibo stavano ancora galleggiando.
Avevo paura. Temevo il peggio: che lo scarico si fosse intasato.
Sforzai affinché non rimanesse neanche una briciola di biscotto.
Le passeggiate erano sfiancanti, spossanti, e la testa, soprattutto di prima mattina, si faceva pesante, e a volte mi sentivo da svenire, ma per non far preoccupare nessuno mi appoggiavo al primo gradino o alla primo muretto che trovavo.
Arrivava l’ora del pranzo. Pranzo libero. Andavamo nel primo bagno e io ordinavo sempre una coca cola light. E la bevevo cercando di deglutire un numero abbondante di pastiglie, senza essere notata e scoperta dai miei amici.
Il secondo giorno fu il più difficile: la fame si faceva sentire; mi ricordo che durante il pranzo corsi nel bagno di un bar. Mi chiusi dentro, aprii la mia borsetta e iniziai a mangiare qualche biscotto lentamente.
Qualcuno bussò alla porta. Con la bocca piena dissi che era occupato.
Capii che dovevo velocizzare il mio pranzo, e quindi sprofondai la faccia nella fetta di torta che meglio si era conservata. Masticai per qualche secondo, pochi attimi di sapori, e avvolsi poi il boccone nella carta igienica e lo buttai nel cestino, avendo paura che si potesse intasare lo scarico del water.
A me era già successo. Un pomeriggio ero rimasta a casa da sola, avevo mangiato, qualcosa sputato, e poi avevo vomitato.
Avevo mangiato e vomitato così tanto che si era intasato il water.
Fu quella una delle prime volte che dovetti dire ai miei genitori che mi ero procurata il vomito.
Mentre ero a Firenze, i miei genitori mi chiamavano puntualmente alle nove, per avere mie notizie. Io dicevo che mi divertivo, che mangiavo, che la città era magnifica. E rapidamente li salutavo, chiudevo la conversazione. E mi accendevo una sigaretta e rimanevo in silenzio, anche se vicino a me c’erano alcuni miei compagni che stavano chiacchierando.
Mi piaceva rimanere sola. Avevo bisogno di stare un po’ da sola.
L’ultima sera era ormai arrivata. Non vedevo l’ora di ritornare a casa per poter salire sulla bilancia. Ero convinta di essere dimagrita, anche se guardandomi nello specchio non mi piacevo ancora.
Ero convinta di aver perso ancora peso, perché per tre giorni non avevo mangiato. Ero sicura di questa cosa, perché anche a casa, ogni qual volta digiunavo per due giorni. E il giorno dopo mi pesavo e avevo sempre due chili in meno.
L’ultima cena, finalmente. Al tavolo con me e altre mie sei compagne, che fortunatamente non mi chiedevano per quale motivo non mangiavo, si erano seduti anche una coppia: la ragazza, Alessia, mia compagna di classe, a conoscenza dei miei problemi alimentari, mi aveva confessato che anche lei per un periodo non aveva mangiato. Di fronte a lei ecco Alessandro, il suo ragazzo. Mi voltai e li fissai a lungo: Alessandro tagliava la carne ad Alessia, e pronunciò parole dolci e rassicuranti: “Mangia anche quest’altri pezzettini, sono pochi. Sei stata bravissima in questi giorni, fai ancora un piccolo sforzo. Mangia anche questa fetta.”
E Alessia obbediva, sorrideva. Afferrava la forchetta e, con la mano traballante, infilzava il pezzo di carne e lo mangiava. Masticava lentamente e deglutiva.
Alessandro sorrideva e diceva: “Non seguire lei! Tu devi mangiare!”.
Prese la forchetta della sua ragazza e prese un pezzo di carne e la imboccò.
Solo una ragazza che soffre di disturbi alimentari può cogliere la tristezza nel volto di quella ragazza. La tristezza ma un forte coraggio. Lei mangiò quella sera. Tra i due giovani c’era un continuo gioco di sguardi, e quello sguardo del ragazzo era talmente rassicurante, che Alessia riusciva a mangiare.
Nicola. Io. Gambe da calciatore. Devi fare la dieta. Imponiti di non mangiare. Devi essere magra. Devi piacere. Devi avere un corpo perfetto. Non devi mangiare.
Ecco quello che la mia mente si richiamava alla memoria.
Gli occhi mi diventarono lucidi, malinconici. Mi accorsi che Alessandro si era accorto dei miei occhi. Le lacrime stavano invadendo i miei occhi verdi. “Scusate, non ce la faccio”. Mi alzai di scatto, corsi fuori sul balcone fino a raggiungere l’estremità del balcone. Piansi. Mi veniva voglia di urlare, di mandare a quel paese Nicola, il ragazzo che invece di accettarmi per come ero, voleva accanto a se una Barby, magra, senza curve. In una sola parola: perfetta.
Iniziai ad insultare Dio, perché lui aveva permesso che il problema del cibo invadesse la mia mente. Iniziai a prendere a calci la ringhiera, perché io ero stata sfortunata, e chiedevo a Dio per quale motivo avevo dovuto conoscere Nicola. Ricordo ancora quel giorno.
Il cuore batteva, sorridevo. I miei occhi erano vispi, vivaci. Vivi.
E io mi piacevo. Ero sessanta chili, e mi piaceva tutto di me.
E ora pesavo sicuramente dieci chili di meno.
Ero magra, piacevo comunque ai ragazzi, il mio seno prosperoso era diventato una leggera curva, che si intravedeva solamente con una maglietta attillata, che ovviamente non portavo mai, perché mi vergognavo del mio corpo.
Un’anoressica non si accetterà mai. Sarà anche anoressica, ma si vedrà sempre grassa. E si rifiuterà di mostrare la pancia piatta che si ritrova, perché si vergognerà del suo corpo, ora troppo magro, ora troppo grasso.
Mi asciugai le lacrime. Decisi di dormire, invece di girare per le varie camere. Mi addormentai con la speranza di ritornare presto a casa, per poter così salire sulla mia nemica bilancia. E poter leggere 47.
Appena tornata a casa sarei uscita con mia sorella, avrei incontrato il ragazzo che tanto mi piace, e gli avrei regalato il mio corpo perfetto quella notte.
Ero convinta che quella sera il ragazzo dei miei sogni mi avrebbe cercata e desiderata. Ero convinta che quella stessa sera sarei stata felice.
Solo uno dei due sogni che avevo espresso si realizzò.
Ero di nuovo 47 chili.


[Dedicata a Claudia]

martedì 11 novembre 2008

Sotto il vestito, niente



14 febbraio: compleanno di mia sorella.
La settimana prima avevo comprato un vestito nuovo, un abito che valorizzasse il mio corpo e la mia immagine, da indossare proprio per questa occasione: la festa del diciottesimo.
Lo indossai il sabato precedente alla festa, ma facendo freddo, portai sotto l’abito un paio di jeans blu stretti.
Quella stessa sera incontrai in un piccolo bar nel centro della mia città Nicola, il ragazzo di cui ero innamorata; anche lui sarebbe stato presente alla festa.
Appena mi vide spalancò la bocca e gli occhi si sbarrarono.
Iniziò a farmi una serie di complimenti, e in quel momento toccai il cielo con un dito.
Avevo azzeccato vestito, lo sapevo! Ero sicura che quell’abito gli sarebbe piaciuto moltissimo.
Ero contentissima, finalmente Nicola mi riempiva di attenzioni e di complimenti.
Ci fu però una spiacevole sorpresa durante la festa: io, forse troppo sicura di me stessa, ero convinta che quell’abito avrebbe riscontrato lo stesso successo.
La sera della festa mi esibii con il mio gruppo, e dopo aver suonato, andai in bagno per indossare quel vestito: non potevo ovviamente mostrarmi con una t-shirt e dei pantaloni strappati; quello era il look da concerto, era il look che una batterista come me doveva avere per venir ricordata.
Corsi lungo il corridoio, senza fermarmi per ricevere i complimenti per il concerto o ringraziare chi me li faceva: avevo uno scopo e dovevo realizzarlo immediatamente.
Il mio scopo aveva un nome: Nicola.
È triste pensare che nella vita, basti una sola frase per far crollare l’autostima.
Fu quella sera che mi fu rivelata la realtà: l’immagine che avevo di me non era corretta, era irreale.
Non esisteva, proprio come non esisteva l’immagine che avevo creato di me stessa.
Quella che vedevo riflessa nello specchio non era una bella ragazza, ma era un cesso.
L’autostima, quell’eccessiva fierezza che avevo di me, la mia vanità e la mia ambizione crollarono in un secondo.
“Hai le gambe da calciatore”.


[Tratto dal mio diario, che scrissi durante il ricovero presso il CDCA (Centro Disturbi ComportamentoAlimentare); 17 febbraio - 7 aprile 2008]
”Iniziai una dieta per il ragazzo che mi aveva fatto notare le mie gambe grosse.
Iniziai a vomitare per poter perdere peso più rapidamente.
Divenni anoressica per potergli mostrare che per lui sarei dimagrita ancora, quanto lui desiderava.
Poi una sera, quando ormai pesavo 36 kili, mi disse che ero carina. “Carina” si dice a un cane.
Decisi che avrei smesso di mangiare, mi sarei addirittura ridotta tutta pelle e ossa, per fargli desiderare il mio corpo perfetto. E non avrei più ricambiato i suoi sguardi.
Lo dimenticai, ma continuò la mia lotta con il cibo.
Come non avevo bisogno del cibo, non avevo bisogno dell’amore.
Non avevo bisogno di nulla, e l’amore che ricevevo lo vomitavo, come il cibo.
In un attimo non mi interessò più nulla, neanche me stessa.
Dimenticai la gioia, la felicità, la completezza.
Dimenticai di vivere.
Pensavo di non aver bisogno di niente, e soprattutto non avevo bisogno di nessuno.”

Non ricordo il giorno preciso che iniziai a vomitare. Non ricordo quando questo gesto divenne una cosa normale, quotidiana.
Ricordo soltanto che accadde.
Divenne una cosa istintiva, spontanea; era anche un obbligo: vomitare dopo qualsiasi pasto, dopo uno spuntino.
Vomitavo per lui, per dimagrire, ma quando riuscii a dimenticarlo, vomitare era ancora una cosa meccanica, istintiva, quasi inconscia.
Mangiavo ad ogni pasto, insieme ai miei genitori, e poi mi recavo al piano superiore e mi chiudevo in bagno, circa mezz’ora dopo il pasto.
Mi piegavo e vomitavo, prima facendo uscire dei singhiozzi, e poi imparai a vomitare silenziosamente.
Nessuno si accorgeva di questo mio comportamento.
Nessuno credeva che al piano superiore avrei compiuto un gesto simile.
Nessuno destava sospetto, nessuno si insospettiva, nessuno si preoccupava.
Ero una ragazza normale, non avevo mai mostrato disturbi mentali o comportamenti anomali.
Il peso era sempre lo stesso, o almeno così fu per i primi mesi, e solo dopo alcuni di questi, la bilancia mi divenne amica: segnava qualche stanghetta in meno, ma i vestiti non mi erano ancora abbondanti.
Nessuno poteva accorgersi della perdita di peso, e soprattutto Nicola, l’unico che doveva notarlo, l’unico che doveva accorgersi che aveva offeso la persona più perfetta che sia mai esistita al mondo.
Mangiavo, vomitavo, e non mi sentivo più in colpa.
Decisi di iniziare una dieta, per poter perdere peso più rapidamente.
Scomparvero nella mia vita cioccolatini, caramelle, dolci e poi lentamente mi privai di qualsiasi cosa, ma finii per cedere, e ripresi in pochi giorni tutti i chili che avevo perso.
Tutti: sembra un’esagerazione, perché tutto sommato erano pochi, solo quattro chili. Ma per me, ammalata, erano troppi.
Ripresi così a vomitare, più assiduamente.
Il peso calò nuovamente: recuperai il peso che ero riuscita a perdere durante i due mesi di dieta, e mi impegnai per perderne ancora qualcuno.
Continuando a vomitare il mio peso non decideva a diminuire.
Ero però molto paziente, diligente.
Non avevo fretta, Nicola mi avrebbe potuto vedere, prima o poi, come lui voleva.
E io a quel punto non ci sarei più stata. Per lui.


Nicola, dopo circa un anno, divenne semplicemente un ricordo.
Nicola era un ricordo, che a volte amavo sentire al telefono o che a volte mi piaceva salutarlo tra i corridoi della scuola.
Ma non ci volle molto tempo che i miei genitori scoprirono quello che loro figlia combinava in bagno.

domenica 12 ottobre 2008

Ieri, oggi e domani.


D’altronde era da alcuni giorni che avevo la tentazione di scoprire il mio peso.
Mi misi davanti allo specchio e i miei occhi percorsero tutto il mio corpo, come se stessero seguendo un tracciato: mi soffermai sulle spalle, rotonde, avvolte da uno strato spesso di pelle, per me chiamata semplicemente ciccia; cercai disperatamente la clavicola: era sotterrata dalla ciccia.
Mi tolsi così la maglietta, per poter vedere interamente la schiena, ma una grande delusione mi aspettava: le vertebre che ogni sera contavo, ed erano ben otto, ora non c’erano più.
Lacrime.
Silenzio.
Anche il silenzio per me ha un rumore.
Dicono che le lacrime non hanno un suono e che mai l’avranno, ma io non ne sono più così convinta: riesco quasi a sentire un’assordante e lamentoso silenzio.
Non ancora soddisfatta mi piegai in modo tale che la testa potesse ciondolare tra le gambe e mi misi nella mia classica posizione in mezzo ai due specchi in modo tale da poter vedere riflessa la mia schiena.
Quella sporgente colonna vertebrale che si prolungava dalle natiche fino al collo prepotentemente, ora era visibile solo al centro della schiena.
Sottolineo che si vedeva solo se mi mettevo in quella posizione.
Potevo fare di tutto in quel momento: piangere, tagliarmi, gridare, vomitare.
Avevo libera scelta: potevo fare quello che volevo.
Mi tolsi i pantaloni, e guardai con indifferenza e impassibilità le mie gambe, senza esprimere alcun giudizio.

Mi misi sulla bilancia, di fretta, come se volessi tagliare la testa al toro una volta per tutte, farla finita con questa tortura.

E per dire la verità mi ero già torturata abbastanza davanti allo specchio.
Quei numeri sul display continuavano a cambiare, e ad aumentare.
Quarantotto e otto, cinquantadue e sei, cinquantatre e nove, cinquantaquattro e due, cinquantacinque e due. E si fermò.
Quei numeri che continuavano a cambiare e ad aumentare, lo facevano lentamente, e creavano in me agitazione, rabbia, inquietudine, angoscia.
Collera, dispiacere, ira, odio, irritazione, sbattimento, trepidazione, preoccupazione, afflizione, sofferenza, ansia, furia, pena, dolore.
Ero incazzata.
Ero furibonda con il mio corpo, che non era capace di metabolizzare e di bruciare in fretta quel poco che mangiavo, ero arrabbiata con me stessa che mi ero piegata al volere e ai consigli dei medici e dei parenti che volevano che mangiassi di più.
Ce l’avevo con il mondo.
In quel momento mi riguardai allo specchio con disprezzo.
Ero una persona grassa per me, normale per gli altri.
Ero una schifezza. Dovevo rintanarmi in casa, non farmi più vedere, scomparire, volare via.
Mi facevo proprio schifo.
Smisi di piangere. Divenni indifferente.
Questo non significa che accettai il mio peso e il mio corpo però: questo significava semplicemente che non mi sarei più guardata allo specchio.
Mi misi nella vasca, e feci in modo di rendermi invisibile sotto la schiuma del bagnoschiuma. Non volevo vedermi. Non volevo toccarmi.
Il mio corpo non meritava nulla. Il mio corpo non doveva ricevere né attenzioni né cure.
Mi rassegnai: iniziai a mangiare a pranzo un pane di media dimensione, con del pesce, e se nel pomeriggio ne volevo ancora un po’, strappavo in mille pezzettini un altro pane, poi sceglievo il più croccante, e poi riaprivo il sacchetto e trovavo un motivo per mangiarne ancora un altro po’, fino a farne rimanere un pezzo solo, e farmi la domanda “Perché lasciarlo solo?”.
Se alle tre di notte non riuscendo a dormire mi veniva fame, perché non mangiare?
Se la mattina a colazione volevo mangiarmi sei biscotti al cioccolato, perché non potevo farlo anche io?
Se per l’ora di cena avevo voglia di dolce, perché non potevo mangiare una scatola di wafer?
Qualche giorno dopo decisi di uscire di casa, e di andare in un locale, poco distante, nella speranza di trovare qualche faccia nuova.
C’era anche una novità: i miei capelli.
Quei capelli così distrutti non avevano altra scelta: dovevano essere tagliati.
Decisi di andare dal parrucchiere, e portai con me una foto di Micha Barton; volevo farmi la sua stessa pettinatura: frangetta dritta e capelli sopra lisci e sulla lunghezza mossi.
Appena entrai nel negozio, la parrucchiera mi accarezzò i capelli, e mi disse subito che andavano tagliati, perché erano molto danneggiati.
I miei capelli, pochi, sottili e che arrivavano a metà spalla, erano veramente rovinati.
Li toccai anche io.
Per me il capello lungo è sinonimo di seduzione. E io dovevo averli per forza lunghi. D'altronde io devo essere perfetta.
Per un momento mi sentii offesa: era come se io mi fossi rovinata in quel modo i capelli.
Volevo alzarmi in piedi, incollare la mia faccia su quella della parrucchiera, e urlarle in faccia che soffrendo di disturbi alimentari era facile che i miei capelli fossero brutti.
Ma alla fine, il suo sguardo umiliante, non era altro che il riflesso della verità.
Aveva ragione quella ragazza. I miei capelli erano brutti e andavano tagliati.
Davanti a quello specchio chiusi gli occhi, e ascoltai il rumore della macchinetta che tagliava i capelli.
Desideravo con tutto il cuore che si interrompesse all’istante.
Quel rumore produceva in me un lamento, una lacrima che sarebbe scesa soltanto un’ora dopo in camera mia, distesa sul mio letto.
Quando la parrucchiera finì di pettinarmi mi guardai allo specchio.
“Ma che bella!” uscii dalla mia bocca, ma dentro di me si stavano producendo milioni di lacrime.
I miei capelli arrivavano ora sotto le orecchie.
Neanche la frangia mi piaceva: lasciava troppo il viso scoperto.
Tornai a casa, con mia mamma, mia nonna e mia sorella.
Una tempesta di domande e di complimenti si frantumarono nelle mie orecchie.
Ad ogni domanda rispondevo “Si, mi piacciono”, “Sto bene”.
Poi tappai le orecchie, e non ascoltai più né le loro domande né le loro bugie.
Scesi dalla macchina, senza salutare, sbattendo le porte di casa, e salii fino al bagno, quel bagno dove avevo vomitato fino a un mese prima.
Afferrai il rasoio e lo avvicinai alla testa.
Si, lo pensai. Ma non ne ebbi il coraggio.
I miei capelli erano già fin troppo corti.
Volevo uscire con un cappellino, ma decisi di presentarmi in quel locale con questo mio nuovo look.
Mi sedetti il più distante possibile dagli altri, e ora mi dava fastidio essere lì, in quel luogo e in quel momento.
Mi sentivo a disagio, non mi piacevo, mi sentivo una schifezza, una persona da isolare. Da emarginare soltanto perché ero grassa.
Parlai poco quella sera, e cercai in ogni modo di isolarmi, di rendermi trasparente.
Dissi poche parole, finché non supplicai mia sorella di tornare a casa.
Rincasammo, e prima di mettermi a dormire presi dei vecchi album fotografici.
Continuavo a guardare le mie vecchie foto: guardavo i miei capelli, sempre tanti e lunghi, osservai le gambe che avevo da piccola, lunghe e sottili.
Come avevo potuto precipitare così in basso?
Come avevo potuto cadere e odiarmi fino a questo punto?
Una sera, prima di fare la doccia, decisi di affrontare la bilancia.