domenica 12 ottobre 2008

Ieri, oggi e domani.


D’altronde era da alcuni giorni che avevo la tentazione di scoprire il mio peso.
Mi misi davanti allo specchio e i miei occhi percorsero tutto il mio corpo, come se stessero seguendo un tracciato: mi soffermai sulle spalle, rotonde, avvolte da uno strato spesso di pelle, per me chiamata semplicemente ciccia; cercai disperatamente la clavicola: era sotterrata dalla ciccia.
Mi tolsi così la maglietta, per poter vedere interamente la schiena, ma una grande delusione mi aspettava: le vertebre che ogni sera contavo, ed erano ben otto, ora non c’erano più.
Lacrime.
Silenzio.
Anche il silenzio per me ha un rumore.
Dicono che le lacrime non hanno un suono e che mai l’avranno, ma io non ne sono più così convinta: riesco quasi a sentire un’assordante e lamentoso silenzio.
Non ancora soddisfatta mi piegai in modo tale che la testa potesse ciondolare tra le gambe e mi misi nella mia classica posizione in mezzo ai due specchi in modo tale da poter vedere riflessa la mia schiena.
Quella sporgente colonna vertebrale che si prolungava dalle natiche fino al collo prepotentemente, ora era visibile solo al centro della schiena.
Sottolineo che si vedeva solo se mi mettevo in quella posizione.
Potevo fare di tutto in quel momento: piangere, tagliarmi, gridare, vomitare.
Avevo libera scelta: potevo fare quello che volevo.
Mi tolsi i pantaloni, e guardai con indifferenza e impassibilità le mie gambe, senza esprimere alcun giudizio.

Mi misi sulla bilancia, di fretta, come se volessi tagliare la testa al toro una volta per tutte, farla finita con questa tortura.

E per dire la verità mi ero già torturata abbastanza davanti allo specchio.
Quei numeri sul display continuavano a cambiare, e ad aumentare.
Quarantotto e otto, cinquantadue e sei, cinquantatre e nove, cinquantaquattro e due, cinquantacinque e due. E si fermò.
Quei numeri che continuavano a cambiare e ad aumentare, lo facevano lentamente, e creavano in me agitazione, rabbia, inquietudine, angoscia.
Collera, dispiacere, ira, odio, irritazione, sbattimento, trepidazione, preoccupazione, afflizione, sofferenza, ansia, furia, pena, dolore.
Ero incazzata.
Ero furibonda con il mio corpo, che non era capace di metabolizzare e di bruciare in fretta quel poco che mangiavo, ero arrabbiata con me stessa che mi ero piegata al volere e ai consigli dei medici e dei parenti che volevano che mangiassi di più.
Ce l’avevo con il mondo.
In quel momento mi riguardai allo specchio con disprezzo.
Ero una persona grassa per me, normale per gli altri.
Ero una schifezza. Dovevo rintanarmi in casa, non farmi più vedere, scomparire, volare via.
Mi facevo proprio schifo.
Smisi di piangere. Divenni indifferente.
Questo non significa che accettai il mio peso e il mio corpo però: questo significava semplicemente che non mi sarei più guardata allo specchio.
Mi misi nella vasca, e feci in modo di rendermi invisibile sotto la schiuma del bagnoschiuma. Non volevo vedermi. Non volevo toccarmi.
Il mio corpo non meritava nulla. Il mio corpo non doveva ricevere né attenzioni né cure.
Mi rassegnai: iniziai a mangiare a pranzo un pane di media dimensione, con del pesce, e se nel pomeriggio ne volevo ancora un po’, strappavo in mille pezzettini un altro pane, poi sceglievo il più croccante, e poi riaprivo il sacchetto e trovavo un motivo per mangiarne ancora un altro po’, fino a farne rimanere un pezzo solo, e farmi la domanda “Perché lasciarlo solo?”.
Se alle tre di notte non riuscendo a dormire mi veniva fame, perché non mangiare?
Se la mattina a colazione volevo mangiarmi sei biscotti al cioccolato, perché non potevo farlo anche io?
Se per l’ora di cena avevo voglia di dolce, perché non potevo mangiare una scatola di wafer?
Qualche giorno dopo decisi di uscire di casa, e di andare in un locale, poco distante, nella speranza di trovare qualche faccia nuova.
C’era anche una novità: i miei capelli.
Quei capelli così distrutti non avevano altra scelta: dovevano essere tagliati.
Decisi di andare dal parrucchiere, e portai con me una foto di Micha Barton; volevo farmi la sua stessa pettinatura: frangetta dritta e capelli sopra lisci e sulla lunghezza mossi.
Appena entrai nel negozio, la parrucchiera mi accarezzò i capelli, e mi disse subito che andavano tagliati, perché erano molto danneggiati.
I miei capelli, pochi, sottili e che arrivavano a metà spalla, erano veramente rovinati.
Li toccai anche io.
Per me il capello lungo è sinonimo di seduzione. E io dovevo averli per forza lunghi. D'altronde io devo essere perfetta.
Per un momento mi sentii offesa: era come se io mi fossi rovinata in quel modo i capelli.
Volevo alzarmi in piedi, incollare la mia faccia su quella della parrucchiera, e urlarle in faccia che soffrendo di disturbi alimentari era facile che i miei capelli fossero brutti.
Ma alla fine, il suo sguardo umiliante, non era altro che il riflesso della verità.
Aveva ragione quella ragazza. I miei capelli erano brutti e andavano tagliati.
Davanti a quello specchio chiusi gli occhi, e ascoltai il rumore della macchinetta che tagliava i capelli.
Desideravo con tutto il cuore che si interrompesse all’istante.
Quel rumore produceva in me un lamento, una lacrima che sarebbe scesa soltanto un’ora dopo in camera mia, distesa sul mio letto.
Quando la parrucchiera finì di pettinarmi mi guardai allo specchio.
“Ma che bella!” uscii dalla mia bocca, ma dentro di me si stavano producendo milioni di lacrime.
I miei capelli arrivavano ora sotto le orecchie.
Neanche la frangia mi piaceva: lasciava troppo il viso scoperto.
Tornai a casa, con mia mamma, mia nonna e mia sorella.
Una tempesta di domande e di complimenti si frantumarono nelle mie orecchie.
Ad ogni domanda rispondevo “Si, mi piacciono”, “Sto bene”.
Poi tappai le orecchie, e non ascoltai più né le loro domande né le loro bugie.
Scesi dalla macchina, senza salutare, sbattendo le porte di casa, e salii fino al bagno, quel bagno dove avevo vomitato fino a un mese prima.
Afferrai il rasoio e lo avvicinai alla testa.
Si, lo pensai. Ma non ne ebbi il coraggio.
I miei capelli erano già fin troppo corti.
Volevo uscire con un cappellino, ma decisi di presentarmi in quel locale con questo mio nuovo look.
Mi sedetti il più distante possibile dagli altri, e ora mi dava fastidio essere lì, in quel luogo e in quel momento.
Mi sentivo a disagio, non mi piacevo, mi sentivo una schifezza, una persona da isolare. Da emarginare soltanto perché ero grassa.
Parlai poco quella sera, e cercai in ogni modo di isolarmi, di rendermi trasparente.
Dissi poche parole, finché non supplicai mia sorella di tornare a casa.
Rincasammo, e prima di mettermi a dormire presi dei vecchi album fotografici.
Continuavo a guardare le mie vecchie foto: guardavo i miei capelli, sempre tanti e lunghi, osservai le gambe che avevo da piccola, lunghe e sottili.
Come avevo potuto precipitare così in basso?
Come avevo potuto cadere e odiarmi fino a questo punto?
Una sera, prima di fare la doccia, decisi di affrontare la bilancia.