martedì 11 novembre 2008

Sotto il vestito, niente



14 febbraio: compleanno di mia sorella.
La settimana prima avevo comprato un vestito nuovo, un abito che valorizzasse il mio corpo e la mia immagine, da indossare proprio per questa occasione: la festa del diciottesimo.
Lo indossai il sabato precedente alla festa, ma facendo freddo, portai sotto l’abito un paio di jeans blu stretti.
Quella stessa sera incontrai in un piccolo bar nel centro della mia città Nicola, il ragazzo di cui ero innamorata; anche lui sarebbe stato presente alla festa.
Appena mi vide spalancò la bocca e gli occhi si sbarrarono.
Iniziò a farmi una serie di complimenti, e in quel momento toccai il cielo con un dito.
Avevo azzeccato vestito, lo sapevo! Ero sicura che quell’abito gli sarebbe piaciuto moltissimo.
Ero contentissima, finalmente Nicola mi riempiva di attenzioni e di complimenti.
Ci fu però una spiacevole sorpresa durante la festa: io, forse troppo sicura di me stessa, ero convinta che quell’abito avrebbe riscontrato lo stesso successo.
La sera della festa mi esibii con il mio gruppo, e dopo aver suonato, andai in bagno per indossare quel vestito: non potevo ovviamente mostrarmi con una t-shirt e dei pantaloni strappati; quello era il look da concerto, era il look che una batterista come me doveva avere per venir ricordata.
Corsi lungo il corridoio, senza fermarmi per ricevere i complimenti per il concerto o ringraziare chi me li faceva: avevo uno scopo e dovevo realizzarlo immediatamente.
Il mio scopo aveva un nome: Nicola.
È triste pensare che nella vita, basti una sola frase per far crollare l’autostima.
Fu quella sera che mi fu rivelata la realtà: l’immagine che avevo di me non era corretta, era irreale.
Non esisteva, proprio come non esisteva l’immagine che avevo creato di me stessa.
Quella che vedevo riflessa nello specchio non era una bella ragazza, ma era un cesso.
L’autostima, quell’eccessiva fierezza che avevo di me, la mia vanità e la mia ambizione crollarono in un secondo.
“Hai le gambe da calciatore”.


[Tratto dal mio diario, che scrissi durante il ricovero presso il CDCA (Centro Disturbi ComportamentoAlimentare); 17 febbraio - 7 aprile 2008]
”Iniziai una dieta per il ragazzo che mi aveva fatto notare le mie gambe grosse.
Iniziai a vomitare per poter perdere peso più rapidamente.
Divenni anoressica per potergli mostrare che per lui sarei dimagrita ancora, quanto lui desiderava.
Poi una sera, quando ormai pesavo 36 kili, mi disse che ero carina. “Carina” si dice a un cane.
Decisi che avrei smesso di mangiare, mi sarei addirittura ridotta tutta pelle e ossa, per fargli desiderare il mio corpo perfetto. E non avrei più ricambiato i suoi sguardi.
Lo dimenticai, ma continuò la mia lotta con il cibo.
Come non avevo bisogno del cibo, non avevo bisogno dell’amore.
Non avevo bisogno di nulla, e l’amore che ricevevo lo vomitavo, come il cibo.
In un attimo non mi interessò più nulla, neanche me stessa.
Dimenticai la gioia, la felicità, la completezza.
Dimenticai di vivere.
Pensavo di non aver bisogno di niente, e soprattutto non avevo bisogno di nessuno.”

Non ricordo il giorno preciso che iniziai a vomitare. Non ricordo quando questo gesto divenne una cosa normale, quotidiana.
Ricordo soltanto che accadde.
Divenne una cosa istintiva, spontanea; era anche un obbligo: vomitare dopo qualsiasi pasto, dopo uno spuntino.
Vomitavo per lui, per dimagrire, ma quando riuscii a dimenticarlo, vomitare era ancora una cosa meccanica, istintiva, quasi inconscia.
Mangiavo ad ogni pasto, insieme ai miei genitori, e poi mi recavo al piano superiore e mi chiudevo in bagno, circa mezz’ora dopo il pasto.
Mi piegavo e vomitavo, prima facendo uscire dei singhiozzi, e poi imparai a vomitare silenziosamente.
Nessuno si accorgeva di questo mio comportamento.
Nessuno credeva che al piano superiore avrei compiuto un gesto simile.
Nessuno destava sospetto, nessuno si insospettiva, nessuno si preoccupava.
Ero una ragazza normale, non avevo mai mostrato disturbi mentali o comportamenti anomali.
Il peso era sempre lo stesso, o almeno così fu per i primi mesi, e solo dopo alcuni di questi, la bilancia mi divenne amica: segnava qualche stanghetta in meno, ma i vestiti non mi erano ancora abbondanti.
Nessuno poteva accorgersi della perdita di peso, e soprattutto Nicola, l’unico che doveva notarlo, l’unico che doveva accorgersi che aveva offeso la persona più perfetta che sia mai esistita al mondo.
Mangiavo, vomitavo, e non mi sentivo più in colpa.
Decisi di iniziare una dieta, per poter perdere peso più rapidamente.
Scomparvero nella mia vita cioccolatini, caramelle, dolci e poi lentamente mi privai di qualsiasi cosa, ma finii per cedere, e ripresi in pochi giorni tutti i chili che avevo perso.
Tutti: sembra un’esagerazione, perché tutto sommato erano pochi, solo quattro chili. Ma per me, ammalata, erano troppi.
Ripresi così a vomitare, più assiduamente.
Il peso calò nuovamente: recuperai il peso che ero riuscita a perdere durante i due mesi di dieta, e mi impegnai per perderne ancora qualcuno.
Continuando a vomitare il mio peso non decideva a diminuire.
Ero però molto paziente, diligente.
Non avevo fretta, Nicola mi avrebbe potuto vedere, prima o poi, come lui voleva.
E io a quel punto non ci sarei più stata. Per lui.


Nicola, dopo circa un anno, divenne semplicemente un ricordo.
Nicola era un ricordo, che a volte amavo sentire al telefono o che a volte mi piaceva salutarlo tra i corridoi della scuola.
Ma non ci volle molto tempo che i miei genitori scoprirono quello che loro figlia combinava in bagno.