mercoledì 3 dicembre 2008

Un passo indietro: tre anni fa.


Firenze è troppo affollata.
Ci sono troppi turisti, troppe persone che camminano distrattamente per le grandi piazze, mangiando rapidamente un rinfrescante gelato, che per il troppo sole, si sta sciogliendo. Troppi corpi, a volte perfetti, che infastidiscono i miei occhi.
Sono tornata da Firenze, felice di ritornare nella mia piccola città.
Quattro lunghi giorni insieme ai miei compagni di classe, quattro giorni nei quali nessuno poteva guardare cosa introducevo, o cosa non introducevo nella mia bocca.
Ero sicura che nessuno avrebbe fatto domande, nessuno avrebbe voluto spiegazioni. Tutti, tranne che i miei professori.
Già. I miei professori si erano accorti di questo mio improvviso dimagrimento, e vedendomi scheletrica tra quei banchi arrugginiti, mi avevano chiesto se avevo dei problemi con il cibo.
Infastidita e seccata dalle continue e assidue domande, un giorno sorrisi e dissi che avevo trascorso una brutta estate, ossessionata dal corpo perfetto da dover mostrare al mare, avevo smesso di mangiare.
“Sto meglio ora, ho ripreso a mangiare!” e sorrisi, e anche la mia insegnante mi sorrise, e poi mi abbracciò.
Ero veramente infastidita dal comportamento dei miei professori: continuavano a guardarmi, dalla testa ai piedi, e riuscivano ad accorgersi del mio umore, capivano se ero in difficoltà ma la cosa che più odiavo era che dovevo subire ogni giorno un interrogatorio.
Quella professoressa che quella mattina mi abbracciò sapendo che stavo meglio, un giorno si permise di dirmi: “Stai meglio così ingrassata”.
In quel momento mi venne voglia di piangere. Era ottobre, avevo ripreso cinque o sei chili dall’estate, ma non mangiavo ancora con regolarità. Sapevo che dovevo dimagrire, ma se avevo molta fame mangiavo addirittura due yogurt.
Mi ricordo ancora che quel giorno di ottobre non toccai il pranzo e neanche la cena. Mi sentii ancora più brutta, ancora più grassa. Pochi giorni dopo, troppo affamata, mangiai ma i sensi di colpa mi vennero addosso. E vomitai.
Fu in questo modo che ripresi ben cinque chili, e arrivai a pesare cinquanta chili.
Per la mia statura questo peso era giusto. Cinquantacinque chili sarebbe stato il peso perfetto. Troppo. Non volevo essere cinquanta chili. Mai.
Con il peso che avevo ora nessuno mi considerava anoressica.
Mi consideravano anoressica solo i miei amici più stretti, i miei genitori. Solo loro. E io invece volevo essere anoressica davanti agli occhi di tutti.
Mi piaceva sentirmi dire che ero magra, che avevo delle gambe magrissime, che avevo la pancia piattissima, che avevo le ossa sporgenti ovunque: dalle magliette si intravedevano due ossicini sporgenti e dai jeans a vita bassa sporgevano due grosse ossa.
Iniziai a toccare il mio corpo sempre più frequentemente per poi arrivare a fotografarlo.
Mi mettevo di fronte allo specchio e mi spogliavo lentamente.
Levavo la maglietta e rimanevo con il reggiseno e i jeans.
Osservavo ogni singolo centimetro della mia pelle.
Il mio occhio si soffermava soprattutto sulla pancia. Nonostante i miei genitori e le mie amiche mi dicessero che era piatta e tendeva a rientrare, io non ci credevo. La trovavo sempre gonfia, e spesso c’era una linea marcata che divideva la pancia sopra l’ombelico.
Spesso quando si rimane a lungo seduti ci si rialza con quella fastidiosa linea sulla pancia. Stranamente quando io mi specchiavo questa c’era sempre. Non andava mai via.
Passavo poi ad analizzare le anche. Le massaggiavo, e come un cursore del mouse, cercavo di capire dove iniziavano, per capire se era il massimo della magrezza o se potevano sporgere ancora di più.
E la risposta era scontata: sicuramente si potevano averle ancora più sporgenti.
Mi mettevo di profilo e sollevavo le braccia per vedere le costole. Spesso mi tornava in mente un’immagine che avevo visto su internet: c’era una donna seduta, anoressica; di quella foto mi avevano colpito soprattutto le costole. Erano protese, si vedevano e si potevano perfino contare.
E io contavo le mie. Due. La settimana successiva erano diventate tre. A quella ragazza se ne potevano contare perfino cinque. Non ero anoressica. Non lo ero più.
Mi toglievo i pantaloni e le mie gambe mi sembravano sempre più gonfie e grosse. Controllavo i talloni e poi le caviglie, ma ormai quella caviglia sottile che ero riuscita ad ottenere era scomparsa.
Non era rimasto più nulla di quel corpo così magro, così perfetto che ero riuscita ad ottenere.
Mi sedevo davanti allo specchio e cercavo di stendere il più possibile verso il basso la schiena. Toccavo la colonna, quella colonna che un tempo tracciava una linea che divideva perfettamente la schiena.
Mi alzavo, mi allontanavo dallo specchio e pensavo al ragazzo che mi piaceva, e non provavo vergogna a mostrare il mio corpo, ma ero sicura che poteva scomparire quella lieve sporgenza, che erano i fianchi.
Una cosa che ho sempre rimpianto è stata quella di non avere foto dell’estate in cui sono stata anoressica. Non ho nessuna foto che valorizzi il mio corpo perfetto che avevo.
Ho un semplice video, mio e di una mia amica, che balliamo in camera mia. Mi ricordo ancora quella serata: ero andata nel primo pomeriggio dalla parrucchiera. Le avevo portato un’ immagine di una ragazza che avevo strappato da un vecchio giornale. Volevo avere i capelli come lei. Come al solito non mi era piaciuto il lavoro che mi aveva fatto la parrucchiera, così appena ritornai a casa presi phone e spazzola e mi acconciai in un altro modo, e poi raggiunsi le mie amiche al parco, dove, quello stesso pomeriggio, si esibiva il gruppo del ragazzo che mi voleva magra.
Ho delle foto di quel pomeriggio. Era un pomeriggio dei primi di settembre, faceva caldo. Indossavo dei jeans, una maglietta senza maniche. Siamo seduti su una piccola collinetta del parco e sorrido. Ho i pantaloni arrotolati, e si intravede una parte del polpaccio. Magro.
Decisi allora di fotografarmi una volta alla settimana, la domenica sera precisamente, dopo essermi fatta la doccia.
In questo modo potevo confrontare il mio corpo: potevo vedere se l’osso era scomparso, oppure, potevo felicemente notare che ne era spuntato uno nuovo.
Firenze è una bella città, ne sono sicura. Potevo analizzare meglio il paesaggio, ma ero troppo attratta dai corpi, dalle curve delle statue.
Mi ricordo che in un museo mi ero soffermata ad osservare una statua orrenda: era una donna, che aveva dei fianchi tremendi, enormi.
Aveva la faccia magra, i capelli raccolti, la pancia piatta con un leggero rigonfiamento centrale. Esplodeva poi con delle gambe grosse.
Sono dovute venirmi a chiamare due mie compagne, perché nel frattempo, la guida aveva già terminato di descrivere tutte le opere che erano esposte.
A Firenze si trova piazza della Signoria, una fantastica piazza dove ci sono numerose statue. Perfette.
Siamo giunti a destinazione giusto per il pranzo. Ho sempre sofferto mal d’auto, e quindi con questa scusa, dissi ai miei compagni che avrei mangiato a merenda. Già sapevo che durante il pomeriggio dovevamo andare a fare una visita, e sapevo che non avremmo avuto tempo per fermarci a fare merenda.
Arrivò velocemente l’ora di cena. Ristorante convenzionato.
Temevo che fosse un ristorante con una sola grande tavolata.
Se fosse stato così avrei avuto difficoltà.
I miei professori erano a conoscenza dei miei disturbi alimentari, ed ero convinta che mi avrebbero guardato mangiare.
Prima di entrare nel ristorante mi venne quasi da piangere: avevo paura di quello che mi sarei trovata davanti.
Inizia già davanti all’ingresso a dire che avevo mal di testa, ancora un po’ di nausea.
Un grande sorriso appena vidi che la sala aveva piccoli tavolini sparpagliati.
Mi sedetti subito nel tavolo più piccolo, più isolato.
Da una parte avevo voglia di stare con i miei compagni, ma dall’altra, quella che ascoltavo di più, mi diceva che non dovevo mangiare.
Arrivò il primo piatto. Mi misi nel piatto un cucchiaio di pasta. Feci finta di mangiarla e poi, togliendo la forchetta dalla bocca, feci una faccia di disgusto e iniziai a lamentarmi. Scoprii inoltre che la pasta non piaceva a nessuno, era troppo piccante. Dissi allora che non l’avrei mangiata.
Arriva il secondo piatto: carne e patatine.
“Sono vegetariana” dissi. Mangiai giusto due patatine fritte, e poi uscii di fretta sul balcone a fumare, nella speranza che il freddo accelerasse la digestione di queste due maledette patatine.
Quando ritornai nella sala mi accolse a braccia aperte una mia professoressa e dovetti subire un lungo interrogatorio.
Hai mangiato? Cosa hai mangiato? Se dici di aver mangiato tanto vorrà dire che avrai mangiato una penna di pasta, o una patatina.
La odio questa professoressa: lei pesa quarantaquattro chili, è più bassa di me, ha due gambe da merlo, magre e snelle. Ma è brutta. E antipatica. Ficcanaso.
Avevamo camminato tutti il giorno, e per la sera era prevista un ulteriore camminata sul Ponte Vecchio.
Avevo la nausea, mi girava la testa e quando mi alzavo vedevo tutto nero, come se dovessi svenire da un momento all’altro.
Assaggiai una puntina di sorbetto che ci avevano portato al tavolo, e dopodichè presi le pastiglie che mi ero comprata: lassativi. Pastiglie al finocchio e al carbone vegetale per favorire il metabolismo e l’eliminazione dei gas..
Ne presi sei in quella sera.
E per togliere ogni sospetto dissi alle mie compagne che dovevo prendere le pastiglie per il mal di testa. Mi credettero.
La mattina la sveglia suonava puntualmente alle sette. Il primo mio pensiero era quello di truccarmi, di farmi bella e poi andare a fare colazione. Amavo la colazione, perché con la scusa di non poter andare in qualche bar a fare la merenda di metà mattina, avvolgevo in fazzoletti molte fette di torta che ci veniva preparata la mattina, biscotti di ogni genere, tra i quali anche i miei preferiti, fette biscottate e marmellate di ogni tipo.
Li nascondevo nella borsa, e appena ritornavo in camera per lavarmi i denti addentavo qualche fetta e una manciata di biscotti. Mi inginocchiavo davanti alla tazza del water e sputavo quello che avevo in bocca. Avevo finalmente fatto colazione.
La prima mattina trascorsa in hotel ebbi molta paura: dopo aver sputato l’acqua scendeva faticosamente, e alcuni pezzi di cibo stavano ancora galleggiando.
Avevo paura. Temevo il peggio: che lo scarico si fosse intasato.
Sforzai affinché non rimanesse neanche una briciola di biscotto.
Le passeggiate erano sfiancanti, spossanti, e la testa, soprattutto di prima mattina, si faceva pesante, e a volte mi sentivo da svenire, ma per non far preoccupare nessuno mi appoggiavo al primo gradino o alla primo muretto che trovavo.
Arrivava l’ora del pranzo. Pranzo libero. Andavamo nel primo bagno e io ordinavo sempre una coca cola light. E la bevevo cercando di deglutire un numero abbondante di pastiglie, senza essere notata e scoperta dai miei amici.
Il secondo giorno fu il più difficile: la fame si faceva sentire; mi ricordo che durante il pranzo corsi nel bagno di un bar. Mi chiusi dentro, aprii la mia borsetta e iniziai a mangiare qualche biscotto lentamente.
Qualcuno bussò alla porta. Con la bocca piena dissi che era occupato.
Capii che dovevo velocizzare il mio pranzo, e quindi sprofondai la faccia nella fetta di torta che meglio si era conservata. Masticai per qualche secondo, pochi attimi di sapori, e avvolsi poi il boccone nella carta igienica e lo buttai nel cestino, avendo paura che si potesse intasare lo scarico del water.
A me era già successo. Un pomeriggio ero rimasta a casa da sola, avevo mangiato, qualcosa sputato, e poi avevo vomitato.
Avevo mangiato e vomitato così tanto che si era intasato il water.
Fu quella una delle prime volte che dovetti dire ai miei genitori che mi ero procurata il vomito.
Mentre ero a Firenze, i miei genitori mi chiamavano puntualmente alle nove, per avere mie notizie. Io dicevo che mi divertivo, che mangiavo, che la città era magnifica. E rapidamente li salutavo, chiudevo la conversazione. E mi accendevo una sigaretta e rimanevo in silenzio, anche se vicino a me c’erano alcuni miei compagni che stavano chiacchierando.
Mi piaceva rimanere sola. Avevo bisogno di stare un po’ da sola.
L’ultima sera era ormai arrivata. Non vedevo l’ora di ritornare a casa per poter salire sulla bilancia. Ero convinta di essere dimagrita, anche se guardandomi nello specchio non mi piacevo ancora.
Ero convinta di aver perso ancora peso, perché per tre giorni non avevo mangiato. Ero sicura di questa cosa, perché anche a casa, ogni qual volta digiunavo per due giorni. E il giorno dopo mi pesavo e avevo sempre due chili in meno.
L’ultima cena, finalmente. Al tavolo con me e altre mie sei compagne, che fortunatamente non mi chiedevano per quale motivo non mangiavo, si erano seduti anche una coppia: la ragazza, Alessia, mia compagna di classe, a conoscenza dei miei problemi alimentari, mi aveva confessato che anche lei per un periodo non aveva mangiato. Di fronte a lei ecco Alessandro, il suo ragazzo. Mi voltai e li fissai a lungo: Alessandro tagliava la carne ad Alessia, e pronunciò parole dolci e rassicuranti: “Mangia anche quest’altri pezzettini, sono pochi. Sei stata bravissima in questi giorni, fai ancora un piccolo sforzo. Mangia anche questa fetta.”
E Alessia obbediva, sorrideva. Afferrava la forchetta e, con la mano traballante, infilzava il pezzo di carne e lo mangiava. Masticava lentamente e deglutiva.
Alessandro sorrideva e diceva: “Non seguire lei! Tu devi mangiare!”.
Prese la forchetta della sua ragazza e prese un pezzo di carne e la imboccò.
Solo una ragazza che soffre di disturbi alimentari può cogliere la tristezza nel volto di quella ragazza. La tristezza ma un forte coraggio. Lei mangiò quella sera. Tra i due giovani c’era un continuo gioco di sguardi, e quello sguardo del ragazzo era talmente rassicurante, che Alessia riusciva a mangiare.
Nicola. Io. Gambe da calciatore. Devi fare la dieta. Imponiti di non mangiare. Devi essere magra. Devi piacere. Devi avere un corpo perfetto. Non devi mangiare.
Ecco quello che la mia mente si richiamava alla memoria.
Gli occhi mi diventarono lucidi, malinconici. Mi accorsi che Alessandro si era accorto dei miei occhi. Le lacrime stavano invadendo i miei occhi verdi. “Scusate, non ce la faccio”. Mi alzai di scatto, corsi fuori sul balcone fino a raggiungere l’estremità del balcone. Piansi. Mi veniva voglia di urlare, di mandare a quel paese Nicola, il ragazzo che invece di accettarmi per come ero, voleva accanto a se una Barby, magra, senza curve. In una sola parola: perfetta.
Iniziai ad insultare Dio, perché lui aveva permesso che il problema del cibo invadesse la mia mente. Iniziai a prendere a calci la ringhiera, perché io ero stata sfortunata, e chiedevo a Dio per quale motivo avevo dovuto conoscere Nicola. Ricordo ancora quel giorno.
Il cuore batteva, sorridevo. I miei occhi erano vispi, vivaci. Vivi.
E io mi piacevo. Ero sessanta chili, e mi piaceva tutto di me.
E ora pesavo sicuramente dieci chili di meno.
Ero magra, piacevo comunque ai ragazzi, il mio seno prosperoso era diventato una leggera curva, che si intravedeva solamente con una maglietta attillata, che ovviamente non portavo mai, perché mi vergognavo del mio corpo.
Un’anoressica non si accetterà mai. Sarà anche anoressica, ma si vedrà sempre grassa. E si rifiuterà di mostrare la pancia piatta che si ritrova, perché si vergognerà del suo corpo, ora troppo magro, ora troppo grasso.
Mi asciugai le lacrime. Decisi di dormire, invece di girare per le varie camere. Mi addormentai con la speranza di ritornare presto a casa, per poter così salire sulla mia nemica bilancia. E poter leggere 47.
Appena tornata a casa sarei uscita con mia sorella, avrei incontrato il ragazzo che tanto mi piace, e gli avrei regalato il mio corpo perfetto quella notte.
Ero convinta che quella sera il ragazzo dei miei sogni mi avrebbe cercata e desiderata. Ero convinta che quella stessa sera sarei stata felice.
Solo uno dei due sogni che avevo espresso si realizzò.
Ero di nuovo 47 chili.


[Dedicata a Claudia]

2 commenti:

Gianluca_takk ha detto...

quanta tristezza per una ragazza così dolce...

CyberMaster ha detto...

...ti ho linkata.
A presto!